Filosofia della cultura
Andare avanti. Ingold e la vita vivente
L’uscita della traduzione italiana di The Life of Lines (Routledge, 2015) conferma l’interesse crescente e trasversale per l’opera del suo autore, Tim Ingold, antropologo inglese che attualmente insegna presso l’Università di Aberdeen. Siamo Linee. Per un’ecologia delle relazioni sociali (Treccani, 2020, pp. VII-262) succede, infatti, a Making (2019) e al più datato Ecologia della cultura (2001), ma a differenza dei precedenti presenta ora il pensiero dell’autore attraverso quella che forse è la sua opera teorica più compiuta. Fin dall’apertura è facile cogliere come il libro travalichi i confini disciplinari dell’antropologia sociale. Infatti, i concetti di “linea” e “bolla”, oltre a dare il titolo al primo capitolo, tracciano un percorso inconsueto con al centro non tanto l’uomo e le sue opere, quanto piuttosto l’intero campo del vivente e le forme di attività che gli appartengono; a partire da una domanda, che sarà poi l’effettiva stella polare del percorso successivo: come descrivere e come «riportare in vita il sociale» (p. 12)? Una prima risposta, seppur ancora abbozzata, arriva subito e propone appunto di affidarsi alla «vita delle linee» (Ibid.). Se però scaviamo dentro questa fortunata immagine ad effetto, troviamo una categoria che nelle intenzioni di Ingold offre la possibilità di elaborare una «ontologia» (p. 26) vera e propria, dove la parti non sono componenti ma movimenti e dove le cose non si limitano ad esistere – ad esistere come oggetti – ma accadono. E accadono dipanandosi e intrecciandosi lungo linee e nodi, appunto; dal livello più rudimentale del batterio fino all’uomo, dalle forme della conoscenza fino agli elaborati materiali e ai manufatti.
Le riflessioni dei primi capitoli conducono così nel mezzo di un tema classico del pensiero, filosofico e non. Infatti, l’idea che la dinamica psichica e quella sociale siano due lati dello stesso meccanismo intellettuale è convinzione potente e ben radicata. A tal punto lo è, che l’una e l’altra hanno spesso funzionato come profili simmetrici, rispettivamente “soggettivo” ed “oggettivo”, della stessa dimensione razionale. Due termini, però, con una stessa radice comune, rintracciabile nel ruolo di sintesi giocato, per un lato, dall’Io nei confronti delle pulsioni e per l’altro dallo Stato verso le spinte centrifughe degli individui e della società. Schema troppo rigido e lacunoso, questo qui appena abbozzato, ma esso dà in breve l’idea del modello con cui Ingold si confronta e a cui rivolge la sua critica. Quel modello di costruzione sociale che egli vede basato sul principio di aggregazione e fusione (p. 14), e cioè sull’idea per cui la vita sociale è uno spazio emergente proveniente da uno scambio reciproco tra individui, ma dove la mente individuale, di per sé, resta un’entità circoscritta e già costituita rispetto all’esterno. Psicologi, linguisti, biologi, fisici, molti sono coloro che – secondo Ingold – sposano la tendenza a definire il mondo, e i processi di composizione ad esso legati, secondo la logica del “mattone”. Così, mattoni sono le facoltà che la mente o il pensiero impiegano per acquisire informazioni e contenuti epistemici; mattoni sono le parole come unità sintattiche; e mattoni, ancora, sono gli elementi della vita all’interno della catena genetica. Ne viene fuori una materia, con cui il libro ha a che fare, proveniente dalle scienze della natura e della mente, dalla filosofia e dall’architettura, dall’artigianato e dall’arte. In una parola, tutto ciò che fa parte dell’ambiente in cui viviamo, inteso però non come qualcosa in cui semplicemente siamo dentro come in un contenitore. Piuttosto, l’ambiente che l’autore ha in mente è il mondo che si fa e si co-costituisce mentre lo si abita; così come la mente (umana) non è, e non potrebbe essere, ciò che occupa lo spazio confinato all’interno della scatola cranica, ma – con espressione particolarmente felice – «il terreno su cui camminiamo» (p. 79). Non un fortino privato, cioè, ma il luogo logico e necessariamente sociale capace di cogliere e interpretare segni. Prima ancora che al modello della mente semiotica e al suo metodo abduttivo, risuona però qui il senso con cui Heidegger e la fenomenologia francese successiva, a cui soprattutto Ingold è legato, hanno usato il concetto di mondo e l’espressione “mondo-ambiente”, togliendo così alle cose che ci circondano la veste di oggettività e recuperando invece l’elemento pragmatico con cui innanzitutto le si incontra. Attraverso questi riferimenti, ben presenti nel libro, si dipana la proposta principale dell’autore: l’idea di un paradigma ecologico unitario e anti-dualista, dove le differenze individuali e sociali, tra umani e non umani, tra cose e luoghi, sono l’esito parziale all’interno di un movimento continuo di crescita e sviluppo. «To human is a verb» si intitola un capitolo fondamentale del libro (p. 115/p. 183), che apre la terza e ultima sezione dedicata a Umanare («Humaning»). Che non significa umanizzare il mondo, sovrapponendo così un ordine costituito, quello umano, a un sostrato naturale altrettanto dato; piuttosto, humaning indica il divenire umani come dimensione originaria e non sostituibile dell’uomo. O, altrimenti detto, pensare l’uomo nella forma del gerundio, come scrive Ingold mutuando un’espressione di Ortega y Gasset dal saggio del 1935 La storia come sistema: «perché dove c’è vita umana non c’è nulla se non il fatto che accade sempre qualcosa (…) La vita, quindi, non è; ma va avanti» (p. 187-8). Sostituire l’essere con il divenire, il fatto con il farsi. La peculiarità della sua proposta, però, non è neppure semplicemente in questa sostituzione, bensì in ciò che egli le fa succedere, vale a dire la passività dell’azione che connota il fare di una vita. Il soggetto non è l’agente, ma è dentro il processo del proprio fare, che perciò mai gli appartiene del tutto, mai è pienamente suo. Vivendo egli realizza qualcosa che si realizza in lui e su di lui ricade, piuttosto che provenire dalla sua assoluta intenzione. D’altra parte, ermeneutica e fenomenologia hanno insegnato proprio questo, che l’azione, così come lo sguardo anche più oggettivo, provengono da un’antichità sterminata che difficilmente si lascia mettere da parte. Eppure, non c’è niente nel peso di questo “già stato”, che renda immobile il cammino della vita o «il pensiero come cammino». Anzi, in un suo importante libro precedente, Making (2013), il processo di produzione è inteso in senso morfogenetico come crescita in cui le intenzioni e i progetti dell’artefice (artista, architetto o artigiano che sia) rappresentano soltanto uno degli elementi in gioco, accanto ai flussi e alle forze dei materiali. In altre parole, quello che fa di una statua di marmo e di una stalagmite ciò che sono non è che l’una è un artefatto e l’altra no, ma la forza con cui entrambe, in modo diverso, giungono all’interno di un processo di generazione. Questa forza è innanzitutto la potenza con cui materiali semplici e oggetti si fanno largo all’interno di quello che possiamo definire l’orizzonte di espressione, nella forma ideata dallo scultore, nell’immagine della notte stellata dipinta da Van Gogh (a cui il libro dedica pagine significative) o persino nella parola più freddamente oggettiva che descrive la composizione fisica di una stalagmite. La vita di queste cose-evento procede in avanti, perché la loro identità è l’effetto, mai definitivo, prodotto dall’incontro con l’orizzonte espressivo dello humaning. Proprio il fatto che questo divenire della statua, del cielo dipinto o della formazione rocciosa non sia imputabile ad un soggetto, quale che sia, è ciò che agli occhi di Ingold consente di parlare di eventi, o cose che accadono, anziché di oggetti. È questo il modo in cui Siamo Linee, andando ben oltre i confini dell’antropologia sociale, si chiede a quali condizioni sia possibile che l’essere delle cose – statue, stalagmiti e azioni umane – dipenda dal suo divenire, dal suo non-ancora, e quindi dal suo statuto futuro. In questa domanda, come si può intendere, ne va non solo di un problema dai confini disciplinari più o meno estesi, ma del compito della filosofia e del suo possibile futuro.