Metafisica e ontologia

David Lapoujade, “I movimenti aberranti” (Mimesis 2020)

Recensioni

Leggere Gilles Deleuze significa confrontarsi con una serie di movimenti e curvature di pensiero spesso difficili da delineare o persino da osservare: si ha chiaramente l’impressione che la linea che si tenta faticosamente di seguire non sia mai ferma e che, presa dal suo slancio vitale, risulti troppo “aberrante” per poter essere fissata o osservata con chiarezza. 

Ma vi è una logica di fondo sottesa a queste linee che il pensiero deleuziano tenta di delineare?  Probabilmente, è questa la domanda fondamentale del testo di David Lapoujade, I movimenti aberranti (Mimesis 2020). 

Il testo – pubblicato per la prima volta in Francia nel 2014 – costituisce un tentativo di mostrare come tutta la filosofia deleuziana sia sottesa da una logica coerente e che l’intero percorso del pensatore francese vada visto come il discorrere di una linea che, sebbene aberrante e multiforme, sia più definita di quanto si possa pensare a prima vista. Il saggio ripercorre, quasi sempre nel dettaglio, l’intero percorso filosofico di Deleuze mostrandoci la strettissima connessione che sussiste tra ontologia, politica ed etica all’interno della filosofia della differenza. 

Quello che emerge è che il pensiero del filosofo francese non può essere ridotto a una filosofia che intenda affrontare solamente alcuni settori specifici del reale: quella di Deleuze – a ben vedere – non è neanche una vera e propria filosofia dell’immanenza. La filosofia della differenza, invece, intende essere totalizzante, è una logica delle logiche che ricostruisce la struttura formale dei movimenti che si manifestano nel reale. Lapoujade lo dice esplicitamente: «L’Anti-Edipo avrebbe potuto chiamarsi “Logica del desiderio”, così come Millepiani avrebbe potuto intitolarsi “Logica delle molteplicità”» (p.18). Tuttavia, la “logica” che si ricerca non coincide con la razionalità, intesa come tentativo di dare un ordine a ciò che si manifesta anzitutto come caos e molteplicità, bensì all’opposto si tratta di una sorta di irrazionale logicità dei movimenti aberranti.

Il pensiero di Deleuze è quindi, in una certa misura, legato alla determinazione del fondamento ma, e siamo già al punto decisivo, non si tratta di pensarlo come ciò che subordina a sé le differenze all’interno di un’identità presupposta rispetto al porsi degli stessi differenti. Occorre perciò rifiutare ogni profondità e antecedenza ontologica: pensare il fondamento come s-fondamento. L’essere non è diviso in maniera gerarchica, a partire da un primum ontologico e cronologico, bensì è anzitutto “senza fondo”: il piano che sostituisce alle forme di identità le manifestazioni libere della differenza. Il senza fondo non è nemmeno l’informe o l’indifferenziato – se così fosse il rapporto tra profondità e superficie sarebbe analogo a quello aristotelico tra potenza ed atto e l’essere dovrebbe dirsi in più modi -, è invece: «Ciò che risale dal fondo per distinguersene, per costituire ogni volta la «sua»propria differenza che non cessa di differire da sé stessa nel rapporto di determinazione reciproca che intrattiene con le altre differenze» (p. 61). Si può dire allora che i movimenti aberranti sono anzitutto ciò che fa risalire alla superficie le differenze secondo una sequenza nomadica e anarchica, priva di qualsiasi struttura o sequenza prestabilita.

A questo punto il problema – di natura non più strettamente ontologica ma anche etico/politica – è quello di spiegare questi movimenti differenziali, mostrarne lo sviluppo e determinarne la legittimità. 

È dal senza fondo, infatti, che risale “l’oceano della dissomiglianza”, il piano di superficie della Terra, ed è tale s-fondamento che permette una concreta eguaglianza ontologica nel piano d’immanenza che si ritaglia nella superficie. L’intero sistema del giudizio è così rovesciato, e le differenze del senza fondo sono liberate dalla concezione identitaria e gerarchica che ne impedisce anzitutto l’autentica comprensione. La domanda “quid juris?” deve trovare risposta all’interno di questo schema concettuale, ed è a tale questione che si dedica una parte significativa del lavoro di Deleuze.

D’altronde, l’affermazione dell’univocità dell’essere è una conseguenza della destituzione del fondamento: nel momento in cui non è più possibile alcuna gerarchia o mediazione tutto è immediato ed ogni differenza va intesa come espressione di un unico senso dell’essere. Lapoujade si sofferma anche su un’ulteriore conseguenza di questa rivoluzione del pensiero: posto che intendere l’univocità dell’essere in questi termini significa tentare di cambiare radicalmente il modo di pensare la relazione, in che modo è possibile pensare l’esperienza in termini sistematici se la stessa mediazione è ora intesa come la conseguenza di un modo superato di intendere il fondamento?  Il problema diventa allora comprendere come cambi la natura della disgiunzione, come questa non possa più essere considerata un’operazione di analisi dell’identico o di scissione dello stesso. Questa, forse, è la conseguenza più importante di tutta la filosofia deleuziana: occorre ripensare la sintesi non più come strumento di identificazione dei diversi, bensì all’opposto come strumento per affermare la differenza positiva dei divergenti; solo in questo modo l’ente può risultare aperto all’infinito dei predicati attraverso i quali passa e perdere il suo centro di convergenza.

La sintesi deve essere intesa come un dispositivo della divergenza e, paradosso dei paradossi, proprio perché ogni cosa è così perfettamente decentrata che può “comunicare” con le altre differenze, affermando la propria irriducibile singolarità. Insomma, la paradossale formula di Millepiani secondo cui “Monismo=pluralismo” porta con sé talmente tante conseguenze ontologiche che lo studio delle tematiche qui appena abbozzate non può che rilevarsi urgente e ancora, almeno parzialmente, inesplorato.

Tra le altre cose, è proprio compiendo questo passaggio che Lapoujade riesce a mostrare quanto il pensiero deleuziano sia totalizzante e oltre le specifiche categorie della filosofia. Ciò si avverte soprattutto tutte le volte che Deleuze parla dell’affermazione dei diritti dei simulacri – le differenze liberate dall’impostazione “identitaria” di matrice platonica – come la prima grande conseguenza della filosofia della differenza. Lapoujade ci mostra, inoltre, la coerenza estrema del filosofo francese nel tentativo di compiere questo progetto: si passa così dalla ricostruzione della genesi tra il non-senso e il senso; al macchinismo generalizzato dell’Anti-Edipo,volto alla ricostruzione della storia dell’inconscio; per finire nel testo che ha inteso indagare la logica delle molteplicità attraverso la storia del popolamento e della deterritorializzazione della Terra: Millepiani. 

Una filosofia, dunque, necessariamente positiva e guidata dalla necessità di coerentizzare la formula metafisica che afferma l’univocità dell’essere. Proprio per tutte queste ragioni l’autore può dire in apertura del testo che la filosofia deleuziana «costituisce il tentativo più rigoroso, più smisurato, ma anche più sistematico, di catalogare i movimenti aberranti che attraversano la materia, la vita, il pensiero, la natura, la storia delle società» (p. 15). Una sorta di enciclopedia del reale dunque che, sicuramente, il testo di Lapoujade ha il merito di mettere in una sorta di – aberrante – ordine, necessario per iniziare a comprendere la linearità che sussiste nel percorso filosofico di Gilles Deleuze.