Estetica e filosofia delle arti
La “comprensione” dell’opera d’arte
L’opera d’arte – come si sa – non dimostra, mostra: è un organizzare sensatamente la materia (cfr. p. 18), dove “organizzarla” significa chiaramente anche trasformarla, assegnando dunque alla mimesis una funzione non meramente riproduttiva. Il volume di Fabrizio Desideri, dal titolo Oggetti attivi. Sulla singolarità delle opere d’arte (Mimesis, Milano-Udine 2021) intende indicare, a vari livelli, come e perché il rapporto tra il corpo in cui s’incarna la nostra mente e l’ambiente che ci circonda assuma la forma di una trama sensata, fatta di coscienza e memoria, proprio in virtù di una fitta rete di scambi – e perciò anche di vincoli che progressivamente si costituiscono – anziché quella di un mero flusso indistinto. Di qui l’idea d’intendere l’opera d’arte come sfida e come costante chance per riorganizzare la nostra comprensione del mondo (p. 24).
Anche sotto questo profilo, il libro presenta una serie di posizioni controcorrente: in un certo senso rifiuta e contesta due dei caposaldi fondamentali dell’interpretazione corrente, staremmo per dire quasi di quella specie di senso comune ormai diffuso e ampiamente condiviso a proposito del ruolo assegnato all’opera d’arte. Si tratta in primis dello scetticismo ormai dilagante rispetto alla possibilità di recuperare una qualche forma di caratterizzazione unitaria del fenomeno artistico e in secondo luogo si tratta dell’idea di una progressiva dissoluzione dell’arte medesima a favore di una dimensione lato sensu estetica, quella per cui oggi l’arte si vedrebbe progressivamente diluita in una serie di processi delocalizzanti connessi alla pragmatica della comunicazione. Queste sono le due tesi principali che vediamo discusse e poste in crisi.
L’opera d’arte è un oggetto non soltanto unitario, ma anche per certi versi unificante, nel senso che possiede una propria carica simbolica attiva, si presenta come una sorta di forma formans (cfr. p. 37). Prendendo spunto proprio da Nelson Goodman si potrebbe addirittura sostituire la classica domanda “che cos’è un’opera d’arte?” con una formula del tipo “quando qualcosa funziona come arte?”. Al di là del confronto critico con le tesi kantiane, ci sembra che il percorso tracciato in queste pagine da Desideri conduca a riconoscere, quasi a riesumare, l’antico senso greco di “poiesis”, intendendo dunque la locuzione “opera d’arte” come si trattasse di un vero e proprio nomen actionis e non rei actae, per dirlo con l’espressione felice adoperata da Carlo Diano. Per anticipare discorsi svolti nelle pagine successive: le opere d’arte possono essere viste tanto come “quasi oggetti” quanto come “quasi soggetti” (p. 81).
L’opera si presenta in realtà come un’occasione di “messa in opera” da parte dell’eventuale fruitore: insomma, l’oggetto può fornirci di volta in volta al più solo la forma, l’esistenza che ravviva la forma e la riscalda e la rende ancora operante – forma formans – ecco, quell’esistenza dovete mettercela voi. Pare piuttosto calzante e tutto sommato condivisibile, a questo livello, l’analogia proposta da Danto tra arte e linguaggio, a patto di non scadere – ricorda Desideri – nella banale connessione tra identità espressiva dell’opera e intenzionalità dell’autore. L’intenzionalismo di Danto viene definito letteralmente “insostenibile”, al pari dell’essenzialismo che ne consegue.
Tutto ciò prelude a uno specifico focus dedicato alla crisi della rappresentazione come chiave interpretativa dello statuto dell’arte dopo la fine della storia dell’arte, così come viene canonizzata tra Winckelmann e Hegel. Si badi, non fine dell’arte tout court, bensì fine della logica servile della rappresentazione. Quasi inevitabili, in questo passaggio, i riferimenti a Magritte, Breton, Duchamp, fino a Warhol sempre letti alla luce dell’arte, intesa come oggetto critico.
Da ultimo, il testo si concentra sul nodo e il significato dell’informe nell’arte contemporanea, ravvisando in esso la rivendicazione di un’istanza espressivo-operativa rispetto a quella rappresentativa e contemplativa (p. 77). L’informe, al di là di ogni vago materialismo, ha certamente il merito di denunciare il carattere meramente rappresentativo che troppo spesso viene assegnato all’arte: si tratta, piuttosto, di liberarla dal suo rapporto con la realtà, e soprattutto dal cosiddetto “obbligo della somiglianza”. Costituendosi soltanto come negazione della forma il “principio dell’informe” mostra la sua intrinseca debolezza sul piano teorico: in realtà la forma è in grado di rivendicare una sorta di anteriorità rispetto alla stessa distinzione tra istanza rappresentativa ed istanza espressiva (p. 78). Solo riducendo la forma al suo fantasma, la si può concepire come fosse il mero surrogato di un presunto ordine razionale, proprio allo scopo di contrapporvi più efficacemente la sovversiva materialità dell’informe: lungi dal poter essere meramente superata, la nozione di forma si pone come il punto cieco dell’estetica contemporanea, per riprendere le parole di Adorno.
Ma in questa utopia modernista di eliminare il concetto di forma si nasconde forse una tendenza culturale – implicita o esplicita, intenzionale o meno – su cui è bene soffermarsi per un istante: si tratta della pretesa di dissolvere ogni valore simbolico e allegorico, vale a dire dell’intenzione di eliminare “quel nucleo di resistente oscurità nella trasparenza dei flussi comunicativi” (p. 84).
Con questo abbiamo voluto semplicemente offrire un’idea, solo per sommi capi, della prima parte del volume: avvisiamo il lettore che ne troverà una seconda, dedicata alle esplorazioni classiche e moderne relative al ruolo e allo statuto dell’arte, dall’estetica hegeliana a Warburg.