Metafisica e ontologia
Descartes, oltre il cartesianesimo
Questions cartésiennes III. Descartes sous le masque du cartésianisme (PUF, Parigi 2021; da ora in poi QCIII) costituisce il più recente lavoro di Jean-Luc Marion sulla filosofia di Descartes. Come nei suoi precedenti studi dedicati al pensiero cartesiano, forse con un’insistenza ancora maggiore, Marion ci invita non soltanto a ripercorrere i testi del corpus di Descartes, analizzato in QCIII per intero, dagli appunti giovanili sino alle Passions de l’âme, ma a soffermarci altrettanto bene sulla centralità dell’evento più complesso e complessivo passato alla storia con il nome di cartesianesimo.
Marion presenta un progetto imponente, per la cui esecuzione è richiesta un’analisi storiograficamente puntuale della filosofia di Descartes, eppure inclusiva delle letture più strettamente teoretiche che ne sono state restituite nella storia del pensiero. Operando una commistione tra analisi testuale e riflessione teorica, dando nuova vita a un metodo che è stato definito métaphysico-historiale, Marion legge i testi cartesiani muovendo dalle critiche avanzate da Spinoza, Kant, Hegel, Nietzsche, Husserl e Heidegger e, reciprocamente, considerando questi ultimi quali eredi (seppure infedeli) della filosofia cartesiana, riconosce loro le medesime esigenze riscontrabili nella lettera dei testi di Descartes (cfr. pp. 57 e 175). È dunque all’interno di un circuito storico e teoretico che Marion orienta il proprio progetto e scandisce l’indice di QCIII.
Prima di ripercorrerne i contenuti, si deve notare che QCIII rappresenta un unicum all’interno della produzione di Marion su Descartes: collezione di inediti, abbozzi, «esquisses» (p. 372), il testo presenta una struttura nondimeno unitaria e le sembianze di una monografia, diversamente dalle Questions cartésiennes I e II; eppure, QCIII conserva lo stile marioniano tipico delle Questions, più specifico e al contempo funambolico di quello restituito dalle sue monografie cartesiane. Marion stesso ammette che QCIII si presenta e vale come un testo «del tutto provvisorio» (Ibid.).
Di certo si peccherebbe d’ingenuità interpretando tale dichiarazione quale eccesso di modestia da parte dell’autore: essa rappresenta in effetti l’assunzione metodologica tramite cui Marion, al fine di «comprendere un autore meglio di quanto egli stesso si sia compreso» (p. 14), si propone di gettar luce sulla natura ambigua del «cominciamento cartesiano», senza però risolvere tale ambiguità cedendo a tentazioni definitorie. La nebulosità caratteristica di tale cominciamento costringe allora l’autore di QCIII ad adottare un dispositivo ermeneutico in grado di preservarla rendendone contemporaneamente “ragione”, il dispositivo della maschera, o meglio delle maschere, nella misura in cui è esattamente all’insegna di una molteplicità di maschere che, secondo Marion, il cartesianesimo si è costituito (cfr. Ibid.).
Il proposito di QCIII è dunque quello di ritrovare un Descartes «senza le maschere»; eppure, non al di là dello stesso dispositivo del mascheramento: le analisi di QCIII sono scandite da un doppio movimento ermeneutico che si piega, assumendolo, all’uso della maschera, al fine stesso di pervenire all’essenza del cartesianesimo. Afferma Marion che se da un lato «si tratta di ritrovare i termini e le intenzioni esatte di Descartes, contro le semplificazioni generiche che il cartesianesimo dei commentatori gli ha affibbiato. […] — questa è la via Descartes contro il cartesianesimo», dall’altro si tratta di «ricostruire il modo in cui il (non-)cartesianesimo si è definito contro Descartes» (pp. 13 e 14). Si potrebbe così configurare contemporaneamente centripeta e centrifuga, rispetto alla figura di Descartes, la forza delle maschere cartesiane analizzate in QCIII, e in questo senso constatarne la presenza pervasiva; e si dovrà ammettere con Marion che il cartesianesimo dispiega la propria complessità entro il gioco di maschere che solo lo concreta: esso sopporta la figura di Descartes e il suo fraintendimento, realizzandosi addirittura nella comprensione dell’una attraverso l’altro. Se la maschera rappresenta per Marion l’unico dispositivo ermeneutico in grado di cogliere essenzialmente il cominciamento nella e della filosofia cartesiana, è allora proprio perché tale «cominciamento deve restare, in misura maggiore quanto più dispiega le proprie possibilità, caché et indécidé» (p. Ibid.) — mascherato.
L’indecidibilità costitutiva del cartesianesimo destinato al mascheramento è rintracciata da Marion a partire dal confronto tra il dubbio di Descartes in Meditatio I e quello di matrice cinico-scettica, nel primo capitolo di QCIII (I. Le doute, jeu suprệme): rivoluzionando l’atto stesso del dubitare ed estendendone la portata, secondo l’autore, Descartes conferisce originalmente e originariamente realtà alla cogitatio quale enunciazione performativa realizzata da un ego, come apparirà chiaramente in Meditatio II, a cui è dedicato il secondo capitolo di QCIII (II. Ego sum, hors sujet). L’analisi della natura performativa dell’ego rappresenta peraltro un’istanza autentica del metodo métaphysico-historiale marioniano; l’autore avvicina l’ego cartesiano muovendo dalle critiche di natura metafisica a esso rivolte: quelle kantiane e husserliane, in merito a una pretesa sostanzialità della realtà dell’ego, e alla sua comprensione al modo della sostanza mondana; quelle più volte avanzate dalla filosofia novecentesca post-moderna, a proposito dello statuto e del ruolo dell’ego quale soggetto chiuso solipsticamente di contro al mondo esteriore; quella heideggeriana riguardo la natura rappresentativa e riflessiva del cogito nella forma del cogito me cogitare; infine quella nietzscheana, come obiezione al cogito mossa dalla comprensione dell’ego quale causa. Marion ripropone tali argomenti per lasciare emergere alcune evidenze testuali da Meditatio II, suggerendo che, durante la seconda giornata meditativa, Descartes si sia limitato non solo a constatare il carattere performativo della realtà dell’egocogito, ma si sia disinteressato pressoché completamente al problema del mondo esterno, sottraendosi ab origine al rischio di smarrire la consistenza ontologica del cogito in quella mondana. Soltanto in Meditatio III, ammettendo: “Non me solum esse in mundo”, Descartes pone il problema della relazione del cogito con la realtà ad esso esteriore, impiegando peraltro per la prima volta la semantica metafisica della sostanza, della causa e della rappresentazione. Ciò significa, secondo Marion, che la performance dell’ego cogito descritta in Meditatio II procede senza qualificarsi sostanzialmente, causalmente o riflessivamente — in breve, metafisicamente: l’ego si realizza “se solum alloquendo”, come cogitatio che è puro pensiero pensante, inesauribile forza performativa. A tale altezza delle Meditationes, la realtà esteriore non può presentarsi quale oggetto contrapposto al soggetto (Descartes assume in effetti i due termini come sinonimi), quale oggetto di una rappresentazione soggettiva, configurandosi bensì come risultato di un esercizio cogitativo performante, antesignano di ciò che la fenomenologia contemporanea definisce riduzione eidetica (V. De Descartes à la phénoménologie et retour).
Prese le difese di Descartes, Marion riconosce nondimeno la legittimità delle critiche di cui sopra; rimarcandone la soltanto parziale esattezza, l’autore suggerisce di individuare due diverse e irriducibili accezioni della cogitatio cartesiana, nonché due possibilità filosofiche da essa dischiuse: una prima, riscontrabile nel corso di Meditatio II, che definisce l’ego nel cogito quale pura enunciazione performativa; una seconda che emerge invece a partire da Meditatio III, nel momento in cui Descartes approfondisce la natura dell’ego in relazione alla realtà altra da sé ed esteriore, e che culmina con il confronto e con la tematizzazione dell’infinità e perfezione divine (IV. L’infini, dépli de la finitude). È a questa seconda modalità operativa dell’ego cogito che devono essere riferite le critiche al cartesianesimo analizzate e ricondotte le inclinazioni metafisiche di Descartes, ché tale modalità è interamente contaminata dal vocabolario della storia della metafisica tradizionale — alla quale Descartes si consacrerà definitivamente, secondo Marion, in seguito al dibattito con Hobbes sulla sostanza e sulle idee quali immagini e rappresentazioni (VII. Hobbes, ou l’idée et l’étant comme corps). Una simile metafisica “cartesiana” riceverà inoltre la prima sistemazione, di una coerenza solo apparente, in Spinoza, tramite l’istituzione di un sistema onto-teo-logico fondato sull’univocità onto-epistemologica tra essere ed ente (VIII. Spinoza ou l’unification des preuves de l’existence de Dieu; IX. Spinoza, l’adéquation et la vision).
Al contrario, la «première voie della cogitatio», la performance del cogito descritta in Meditatio II, dischiude una possibilità filosofica metafisicamente inaudita, custodisce un ego che sfugge alle troppo strette determinazioni metafisiche del trascendentale o dell’empirico: un ego che è erede del moi di Montaigne (VI. Montaigne, ou le doute sans ego sum, ego existo), da leggere a sua volta in parallelo e quale contraltare dell’interiorità dell’animus agostiniano (Appendice. Montaigne ou le bon usage du scepticisme de Saint Augustin). La «première voie della cogitatio» individua cioè un ego che trova concretezza nella disposizione etica, nell’esercizio della generosità, nella conoscenza della reciprocità della stima descritti nelle Passions (III. Connaître à l’estime). Esprimendosi entro un orizzonte morale, la cogitatio espleta la propria performance e adempie «il suo vero ufficio e il suo vero uso», facendo esperienza di sé, quale unità mente-corpo, tramite una visione «priva di garanzie di oggettività, […] senza certezza di oggetto alcuno, senza ordine né misura» (p. 137); una simile possibilità, opposta a quella che tende «alla metafisica, mediante l’onto-teologia — questa sarà la strada seguita per primi da Spinoza, Leibniz e Malebranche», mira «all’abbandono della filosofia, tramite la negazione del sistema della metafisica — via seguita da Pascal, e forse anche da Fénelon e Rosseau»: al di là di ogni dualismo (soggetto-oggetto; mente-corpo), tale prospettiva inaugura una «filosofia della finitezza», la quale prende atto dell’inattingibilità metafisica dell’infinito che la de-finisce, e si realizza nella pratica etico-comunicativa (p. 353). In tal senso, le conclusioni di QCIII si ricollegano alle analisi proposte da Marion in Sur la pensée passive de Descartes, e non soltanto per l’attenzione rivolta alla componente “umana”, all’esercizio performativo di una cogitatio espletato nell’unione con il corpo entro una dimensione etica e non solo teoretica, ma per la stessa insistenza con la quale l’autore individua tale componente come il dispositivo in grado di destrutturare le categorie della metafisica tradizionale, con cui peraltro il cartesianesimo è stato lungamente interpretato.
Il cartesianesimo su cui invita a riflettere l’autore di QCIII si configura dunque all’interno di tale duplicità di coordinate, e per ciò stesso emerge come irriducibilmente doppio, irrimediabilmente mascherato: QCIII suggerisce con ciò di pensare le maschere del cartesianesimo quali maschere dello stesso Descartes, ritrovando il senso dei suoi testi proprio nelle molte interpretazioni che essi hanno suscitato: «le tesi cartesiane non si comprendono se non ricostruendone la storia e l’itinerario delle vittorie» (p. 351). E, se è così vitale l’ambiguità che nutre la filosofia cartesiana, si dovrà ammettere, da ultimo e definitivamente, l’impossibilità di ridurre i testi di Descartes a una delle loro interpretazioni possibili, e Descartes stesso a una qualsiasi delle sue sempre calzanti ma mai adeguate maschere: «La grandezza unica e inaudita di Descartes è stata quella di aver visto queste possibilità — e di averle, lui per primo, testate entrambe —, eppure, al contrario di coloro che in seguito si sono appellati a lui per attuarle (Clauberg, Spinoza, Malebranche e altri), di averle abbandonate. Le ambiguità, i pentimenti e le vie traverse di Descartes sono altrettanto rilevanti che le sue scoperte più visibili, perché anch’esse disegnano la nostra storia e la nostra provenienza, le nostre peregrinazioni ma anche le possibilità che, ancora, ci rimangono» (p. 354).