Estetica e filosofia delle arti
Il gusto e il suo doppio: estetica del kitsch
La riflessione di Andrea Mecacci attorno al problema del kitsch rappresenta ormai da molti anni un nodo consolidato e di ampio valore all’interno della riflessione estetica italiana. Se il testo del 2014, Il kitsch, edito da Il Mulino, costituiva una prima forma di sintesi di questo percorso, Il gusto e il suo doppio, pubblicato per Mimesis nel 2021, amplia e prosegue quelle linee di ricerca, raccogliendo alcuni degli studi realizzati da Mecacci negli anni successivi, tra il 2015 e il 2020. Otto in totale, tali studi figurano in uno spazio d’indagine assai variegato, che intreccia la riflessione filosofica con quella antropologica, la prospettiva storica con quella sociologica, non allontanando lo sguardo dalle pratiche estetiche che tali ricerche indicano (l’arte figurativa e performativa, la letteratura, il cinema, la moda, il design).
L’«oscuro sostantivo del lessico estetologico tedesco» (p. 11) viene anzitutto ricostruito tanto nella sua vicenda storico-filosofica quanto nelle sue declinazioni teoretico-estetiche. Lo spazio in cui Mecacci opera prende le mosse, se non addirittura dall’estetica di Hume, almeno dal cuore del Romanticismo tedesco di Schiller e Friedrich Schlegel, in cui il kitsch viene covato all’interno di una generalizzata «crisi della bellezza come criterio orientativo dell’arte e dell’esperienza estetica» (p. 14). Ne risulta un’articolata vicenda che, dall’idea di un kitsch concepito come arte di secondo grado, sottomesso a una retorica del gusto e del modello, arriva, attraversando intere generazioni di riflessione filosofica, fino all’estetica postmoderna, in cui il kitsch opera ormai nei meccanismi del consumo di massa. Terminus post quem, in questo senso, è il tournant rappresentato dagli anni Sessanta del Novecento con la riflessione di Ludwig Giesz e, soprattutto, l’introduzione della nozione di neokitsch da parte di Abraham Moles.
Kitsch: sostantivo e aggettivo, concetto, pratica. E ancora: categoria estetica ed etica, idiozia del cuore, volgarità dello spirito, forma di contraffazione, di banalità, di eccesso, ambiguità del gusto, rimozione della forma, insufficienza di bellezza, metamorfosi e ibridazione, metafora e mimesi. Infinitamente declinato, nelle forme del neokitsch, del pop, del vintage, dello chic, del poncif, del camp, del trash. Difficile, se non impossibile, rendere conto estensivamente dell’ampio palinsesto concettuale e autoriale in cui si muove Andrea Mecacci, difficoltà che obbliga a muoversi per scelta, per scampolo, per frammento, secondo un movimento non estraneo a una delle molte dialettiche messe in atto dal kitsch stesso.
Una, almeno, è la linea su cui qui vorremmo soffermarci, ovvero l’intreccio tra kitsch, vita e pratiche estetiche. Un gesto sul quale Mecacci si concentra con particolare intensità ne Il gusto e il suo doppio, infatti, è quello di indagare quei nodi in cui il kitsch, esulando dalla riflessione puramente filosofica, diviene un fatto soggettivo, una prassi umana.
È così, allora, che dove i filosofi tacciono o hanno taciuto, Mecacci mostra che a parlare è prima di tutto la letteratura; dove il kitsch manca di una sua teorizzazione o, addirittura, è ancora assente come termine consolidato, è a romanzieri e poeti come Flaubert e Baudelaire, con un gesto alquanto bachelardiano, che ci si rivolge. In questi autori, in particolare, esso si svela come un concetto singolarmente ibrido, intrecciato con quelli di contraffazione, di volgarità, di banalità e, soprattutto, di bêtise. «Il kitsch sta all’estetica come la stupidità sta alla vita», afferma Mecacci (p. 11). Come, infatti, «nell’eroina di Flaubert [Emma Bovary] si concretizza, da un lato, la bêtise del sentimentalismo in una serie infinita di fantasticherie, di immagini già consumate, di piccoli sentimenti che si ammantano di nostalgie e aneliti e, dall’altro, si verifica una dialettica decisiva», ovvero «l’identificazione tra la lettrice e la protagonista del romanzo» (p. 13), nell’incompiuto La capitale delle scimmie, lo scritto su quel Belgio «in cui la modernità consuma la propria apocalisse» (p. 45), Baudelaire declina la medesima bêtise come volgarità, bassezza, scimmiottatura e contraffazione, individuando un’esemplificazione di questa «irreparabile incomprensione del bello» (p. 29) nel trionfo di uno «style jou jou», uno «stile giocattolo» (p. 72) di cui l’architettura (kitsch) di Bruxelles è manifestazione e i cui segni ancora oggi possiamo rinvenire all’interno di specifiche pratiche artistiche contemporanee.
Allo stesso modo, in area russa, il kitsch deve essere archeologicamente rinvenuto in concetti quali quelli di poddelka (contraffazione) e di pošlost’ (volgarità), la prima individuata nell’opera di Tolstoj e la seconda nel Gogol’ riletto da Vladimir Nabokov. Tali concetti si ipostatizzano in un inventario romanzesco di pose e atteggiamenti socialmente legittimanti, che già sembrano manifestare alcune sfaccettature quel “kitsch antropologico” che Hermann Broch teorizzerà e additerà come il filo rosso di quell’«immenso disegno di ipocrisia culturale» (p. 45) tipico della società borghese otto-novecentesca e che troverà la sua incarnazione nella figura del Kitsch-Mensch, l’uomo della menzogna e della cattiva coscienza, maschera di una società senza ideologia che ha condotto alle estreme conseguenze le dimensioni della feticizzazione e dell’ossessione del bello.
A Tolstoj, peraltro, sono dedicate tra le più interessanti pagine della raccolta. Nel saggio La casa di Ivan Il’ič, Andrea Mecacci mostra con suggestiva efficacia la fluida relazione che, all’interno di una certa fenomenologia del kitsch, intercorre tra soggetto e oggetto. È la casa, figura che negli ultimi anni ha (ri)trovato nella riflessione estetica una particolare attenzione, ad offrire l’occasione per questa riflessione. La dicotomia tra lo spazio oggettivo (house, space) e lo spazio soggettivo (home, room) che la casa incarna si riflette e si trasferisce, come in una sorta di chiasmo, nella soggettività di chi abita lo spazio. Nel racconto di Tolstoj, infatti, a parlare non sono tanto gli inquilini della casa di Ivan Il’ić, ma gli oggetti, che «urlano», «sussurrano», «rassicurano» (p. 80), mettendo in scena un processo in cui il soggetto viene reificato. Mecacci ricostruisce così il processo di «personalizzazione dell’inanimato» (p. 81) messo in atto da Tolstoj: il puf, la scala, gli oggetti d’arredo, oltre ad elevarsi ad autentici protagonisti del racconto, diventano luoghi intensivi di pensiero e di evento in cui lo spazio si traveste, mostrando la sua vera natura illusoria, ovvero quella di uno spazio in cui a parlare è il «mutismo delle convenzioni» (p. 80), il gioco di sublimazioni, alienazioni e rimozioni tipici della società borghese.
Tali riflessioni non trovano punti ciechi nemmeno nella contemporaneità. Oltre a un repertorio cinematografico e performativo, che spazia da Buñuel a Zvjagincev a Marina Abramović, a cui si rivolgono le pagine conclusive del testo, nel saggio intitolato Un’affinità elettiva Mecacci rivolge un’attenzione particolare alla moda. Se il kitsch è stato storicamente inteso anche come una forma di «cattivo gusto inconsapevole» ed è stato inserito in «un’estetica che si attiene a meri principi di etichetta» (p. 71), ciò ha un seguito particolarmente pregnante nell’epoca (postmoderna) del neokitsch e della società di massa. Esemplificazione di questo è proprio la moda contemporanea, in cui «l’eleganza piccolo-borghese si muta nella pratica ludica dell’ibridazione», nell’ottica di «un cattivo gusto ormai consapevole» (ibid.).
Alcuni degli esempi che Mecacci mostra sono tratti da un’estetica divenuta ormai popolare: «la stereo-tipizzazione del rosa pastello negli abiti delle damigelle a un matrimonio della provincia americana e la sua negazione (ma anche riaffermazione) ironica, il rosa della collezione delle scarpe Adidas di Jeremy Scott nel 2013 e il rosa da Barbie dell’outfit Moschino, sempre firmato da Jeremy Scott, indossato da Paris Hilton nel 2014» (p. 71), «l’abito-lampadario di Moschino» (p. 72) della stagione autunno-inverno 2016-2017 o Pink Flamingo di Bertrand Guyon (2018-2019). In questo senso, Mecacci individua nel rapporto morfologico tra moda e kitsch «una vera e propria grammatica», una grammatica che consiste in quei principi, propri «di ogni estetica operativa», in cui viene meno «uno dei binomi fondativi del moderno, quello tra la forma e la funzione» (p. 73). La presenza quasi ossessiva della linea curva e dell’elemento decorativo, l’uso esasperato di precisi colori (il rosa), l’uso libero della proporzione e dei materiali, l’ibridazione degli stili e il citazionismo convulso tipico della postmodernità: sono solo alcuni degli elementi che contribuiscono a rendere quest’estetica un’«estetica dell’addizione», in cui il kitsch non solo è immediatamente riconoscibile, ma protagonista di una vera e propria forma di messa in scena. L’abito-lampadario di Moschino, ad esempio, mostrando un abito che diviene scultura, opera una metamorfosi che investe tanto l’ambito della rappresentazione metaforica (il rapporto analogico-ingegnoso tra veste e oggetto d’arredo), quanto quello della forma e della funzionalità. In modo analogo, oscillando «tra provocazione ironica e ineleganza ludica» (p. 74) e teatralizzazione consapevolmente il cattivo gusto, Pink Flamingo di Bertrand Guyon modula un rapporto tra l’ironica esuberanza dell’ornato, tipica dell’estetica postmoderna, e il perturbante gioco ipermimetico che vede la modella trasformarsi in fenicottero rosa, figura già conosciuta a un certo immaginario trash cinematografico. L’epoca contemporanea, insomma, rappresenta davvero un’epoca in cui il kitsch, «metabolizzando il negativo che gli veniva addebitato dall’estetica tradizionale e dal modernismo più oltranzista […] ne fa deliberatamente propri i contenuti, i cui valori non sono più discussi o dibattuti, ma utilizzati e sfruttati per qualsiasi operazione estetica, artistica o commerciale» (p. 21).
Il gusto e il suo doppio, titolo che, certo, richiama un altro fondamentale luogo della riflessione estetica novecentesca, Il teatro e il suo doppio, il titolo che introduce la raccolta di saggi che Antonin Artaud scrisse come manifesto di un nuovo teatro. Ma non ricordiamo questo per affermare un’analogia formale tra il kitsch e la crudeltà che il drammaturgo francese elevò a cifra concettuale della sua scena, bensì per ribadire come anche qui, come il teatro di Artaud, il kitsch è un nome plurale, che si dice in molti modi, che rivoluziona il modo con cui concepire le categorie che tradizionalmente descrivono e concettualizzano le nostre esperienze estetiche, che si fa portatore una dialettica complessa tra l’antico e il contemporaneo, che illustra una scena in cui tutti ormai, spettatori e attori, siamo coinvolti.