Filosofia della cultura
Fine della pace e ritorno della storia: Lucio Caracciolo tra geopolitica e filosofia
La Pace è Finita (Feltrinelli 2022, 141 pp.) è l’ultimo libro di Lucio Caracciolo. A seguito del ritorno della guerra in Europa, il direttore di Limes non si è esibito in un instant book, ma ha preferito un’analisi di lungo periodo, al contempo genealogica e prospettica, con il chiaro obiettivo di gettare ordine sul nostro tempo. O meglio, con il chiaro obiettivo di mostrare che – nel nostro tempo – di ordine ne rimane ben poco. A pagina 98, infatti, Caracciolo sancisce: ‹‹il segno del nostro tempo è l’impossibilità dell’ordine mondiale››.
Nel volume, Caracciolo affronta tutti i temi geopolitici più importanti – dalla crisi dell’Europa e della NATO, spaccate tra Est ed Ovest, alla crisi interna degli USA, passando ovviamente per la guerra in Ucraina. Tuttavia, nessuna di queste crisi si configura – da sola – come quell’elemento che rende impossibile l’ordine mondiale. L’impossibilità dell’ordine mondiale ha cause molto più profonde, che la guerra d’Ucraina non ha fatto altro che portare alla luce, attualizzando tutta una serie di linee di frattura e di scontro che l’ideologia (americana) della fine della storia riusciva, in qualche modo, a nascondere.
Da questo punto di vista, il testo di Caracciolo è a tutti gli effetti una decostruzione, un tentativo di mettere in questione quei miti “infondanti” (da “Leuropa potenza civile” alle tendenze economiciste e astrattamente modellistiche nell’analisi geopolitica) che hanno reso il mondo cieco alla creazione di nuove linee di faglia, che sotterraneamente agivano, rese invisibili dalla narrazione secondo la quale la Storia era in sciopero.
La domanda che muove il libro di Caracciolo, però, è squisitamente filosofico-geopolitica: cosa c’è dopo la fine della Storia? Caracciolo risponde: le storie della fine. Viviamo in un mondo in cui ‹‹le narrazioni correnti suonano apocalittiche […]. La storia universale dell’umanità, glorioso progetto kantiano, è archiviata. Pullulano storie particolari e particolariste, che regimi di vario tono erigono ad auto-legittimazione o a giustificazione di guerre di recupero›› (p. 8).
In una parola, dopo la fine della Storia, si genera un ‹‹sovrappiù di storie››. Le comunità geopolitiche riscoprono – o inventano – dei passati utili a legittimare i loro attuali obiettivi strategici, caricandoli così di un’aura mistica, da cui deriva – parafrasando Derrida – un “tono apocalittico adottato di recente in geopolitica”, in virtù del quale la sconfitta non è più contemplata. Con tanto di rottura del tabù atomico, perché la ratio (se questa parola ha un senso) dietro minacce atomiche è molto semplice: se non posso vincere io, morirete tutti con me, semplicemente ‹‹perché ero. Meglio: ero sempre stato. Quindi sarò››.
Altro che fine della storia e ordine mondiale, qui abbiamo a che fare con l’inflazione delle storie e con ‹‹l’aggiramento della realtà e la sua manipolazione a scopo di potere›› (p. 118).
Scopo del volume di Caracciolo, dunque, non è quello di offrire una panoramica della situazione bellica. Né, probabilmente, il testo intende analizzare geopoliticamente il disordine mondiale, come a voler disegnare un “atlante delle crisi mondiali”.
L’obiettivo di Caracciolo – e, in questo, è totalmente filosofico – è farci capire come, dopo il 24/02, siamo entrati in una nuova epoca, assolutamente incomprensibile con gli strumenti del passato, dove a farla da padrone è il ritorno sulla scena, oltre che della storia – anzi, delle storie –, dell’incomunicabilità, dell’incomprensione reciproca e generalizzata.
Quando Caracciolo (p. 9) afferma che ‹‹nell’autoscontro delle narrazioni inconciliabili idea e prassi dell’ordine mondiale non hanno spazio››, non possono infatti non venirci in mente le parole di Gianbattista Vico, quando – già nel XVIII secolo – il filosofo napoletano si rendeva conto che differenti nazioni parlano lingue ‹‹diverse e ‘n conseguenza mute tra loro››.
Rendersi conto di questa incomunicabilità, di questo pullulare di storie che rifiutano di scendere a patti, è la condizione di possibilità per una prassi geopolitica in grado, da un lato, di non (ri)cadere nelle trappole universalistiche e, dall’altro, di riconoscere qualsiasi narrazione – appunto – come parziale, strumentale, ontologicamente intrisa di storia e di strategia, programmata ad agire come ‹‹supplemento d’anima della potenza››. Probabile eco musiliana, però potenziata (del resto, Caracciolo intitolò un editoriale di Limes proprio a Musil, cfr., Limes, n. 5/ 2022, Il Manicomio di Babilonia): la narrazione, che possiamo anche chiamare ideologia, non è più “guida” dell’anima (come vuole il Musil de L’uomo tedesco come sintomo), ma supplemento della stessa, conditio sine qua non per legittimare ogni prassi strategica, indipendentemente da una presunta verità: ‹‹le narrazioni sono omologate in quanto funzionali. La “verità” storica non interessa›› (p. 118).
In conclusione, il testo di Caracciolo, oltre ad offrire uno sguardo lungo sulla cronaca che giornalmente ci sommerge, ci permette anche di ragionare filosoficamente, di sintonizzarci sulla nostra epoca storica, per comprenderne le strutture profonde. Del resto, se – come sostiene Caracciolo – l’ordine pare impossibile, quella disciplina che dovrebbe essere attratta dal caos è proprio la filosofia, che sin dalla sua nascita si è nutrita della dialettica tra molteplicità (caos) e unità (ordine). La geopolitica, dunque, come ce la presenta il testo, non può non muovere la filosofia, obbligandola a (ri)fare i conti con il caos e a non rifugiarsi in schemi astratti. Del resto, come il libro di Caracciolo suggerisce e come del resto l’autore ama ripetere, la filosofia nobilita la geopolitica, donandole profondità di sguardo. E mai, come in questi tempi, una stretta collaborazione tra le due discipline è stata così necessaria.