Metafisica e ontologia
In due. Il pensiero si distende in pianura
di Marco Rienzi
Muovendo il primo passo di questa recensione, potremmo cominciare tentando di render conto anzitutto della difficoltà in cui si trova, difficoltà sperimentabile in chi, come noi, si dispone con l’intenzione di considerare il volume di Massimo Adinolfi – Qui, accanto. Movimenti del pensiero (Inschibboleth, Roma 2020) – in quanto oggetto di un discorso. L’impaccio si avverte nel fallimento di agguantare quanto alla presa di discorso e pensiero non si offre, e beninteso: senza perciò rinviare a terre promesse da cui il logos sarebbe escluso, né tantomeno ipotizzando resistenze che pensiero e linguaggio non riuscirebbero a piegare o riassorbire. Il libro non si offre alla presa perché piuttosto si depone in stato di in-differenza rispetto ad essa, e a noi che vorremmo inquisirlo ribatte defilandosi al modo del modesto copista Bartleby, personaggio del celebre racconto melvilliano. Il libro è quindi senza pretese, privatosi anzitutto della forza e dello spicco che competono a chi si costituisce nella propria determinatezza, quella stessa che per consentire alla cosa di essere quel che è ha di riflesso la necessità di negare e respingere tutto quanto non è. Depostosi in questa pianura dell’indifferenza, è per noi possibile accostare il libro solamente standogli accanto, in due: libro e recensione.
Se molteplici sono le questioni sollevate dal testo, una menzione d’onore merita certamente il concetto dell’“indifferenza”, che in sottofondo accompagna l’intero esercizio condotto da Adinolfi. Profilandosi nel solco di una rilettura del problema tradizionale della cosa in sé, potremmo senz’altro riconoscere come uno degli spunti più originali del testo consista proprio nel tentativo di convertire il caput mortuum del pensiero (G. W. F. Hegel) in un’istanza che sia in grado di mandare in folle lo stesso plesso logico-metafisico, quella costellazione concettuale che nella tradizione filosofica ha raccolto i suoi maggiori interpreti.
Grazie al filo conduttore fornito da una domanda sulla facoltà di pensare, l’esercizio condotto da Massimo Adinolfi viene quindi a rendere testimonianza delle figure centrali che scandiscono la fisionomia del plesso logico-metafisico: Platone, Aristotele, Kant, Hegel, Husserl, Heidegger e tanti altri sono i pensatori via via chiamati in causa prima ad offrire una descrizione morfologica del plesso, e poi alla sua stessa messa in questione. A segnare il posto del plesso logico-metafisico e dell’Occidente, è anzitutto la riconduzione del molteplice all’unità: unità della distinzione, identità della differenza, correlazione universale.
Una delle spie che segnalano il valore delle analisi condotte, anche in chiave critica, è la messa in questione dell’esposizione speculativa così per come questa si declina entro la filosofia hegeliana. Poco cambia passando dalla Fenomenologia dello spirito ai sillogismi della Scienza della logica: per Hegel, lo speculativo resta una modalità dello sguardo, una certa considerazione tanto delle determinazioni intellettualistiche quanto delle proposizioni che compongono i sillogismi. E questo sguardo – nella filosofia della rivelazione del profondo (Offenbarung der Tiefe) – sarebbe proprio quanto il dire proposizionale non riuscirebbe a tradurre nella sua stessa lettera, sperimentando una difficoltà eguale e contraria rispetto alla coscienza che, all’inizio dell’itinerario fenomenologico, opinando il singolare questo-qui si ritrovava tra le mani l’universale. Meinung della certezza sensibile è quella propria della coscienza che, dicendo quel che dice, non sa quel che dice. Meinung dialettica è quella del filosofo che sapendo quel che dice, non (può) dire quel che sa.
Con l’ausilio di poche pennellate, potremmo così riassumere la serie dei passi compiuta: dapprima si è descritto il plesso, indicandone la struttura; poi è stata posta la domanda intorno alla legittimità della sua costituzione; infine, è stata esplorata la stessa possibilità della domanda, giungendo così alla sua deposizione. Ben lungi dal venire a capo della domanda sulla possibilità del pensare, il testo giunge quindi «a dis-pensare il pensiero, a pensarne la deposizione», (p. 222).
E cosa ne viene, allora, una volta deposta la domanda sul plesso logico-metafisico che ha provveduto a scandire l’articolazione del pensiero filosofico? Cosa ne consegue? A cosa serve questo libro così
come la proposta di pensiero ivi contenuta? Prima facie, quasi nulla sembra conseguirne, la ricerca lascia anzi tutto così com’è: «la deposizione della domanda non ha conseguenze, è fuori dal regime del conseguire, e indifferente e non è toccata da ciò che da essa consegue», (p. 224). Con espressione ossimorica, Adinolfi definisce l’esercizio condotto come un “operare inoperante”: né práttein né poieîn, poiché non ha télos e neppure produce un bel niente. La serie di passi compiuta in questo libro si presta così ad essere interpretata come un insieme di tappe di una pigra passeggiata del pensiero, senza scopo né meta – di un esercizio perciò si tratta, più che di una dimostrazione –, per nulla più di far prendere al pensiero una semplice boccata d’aria tranquilla, quella stessa attribuita da Flaubert ai capolavori: «i capolavori sono stupidi; hanno l’aria tranquilla delle cose stesse della natura, come i grandi animali e le montagne» (Correspondance, lettera a Louise Colet del 27 giugno 1852). Il pensiero si depone così in stato di in-differenza rispetto alle cose, nella quiete e tranquillità di chi si distende accanto ad esse, in molti senza chiudersi ne i molti.
E allora una parola può esser presa in prestito dalla tradizione del pensiero per restituire quanto vi è qui in gioco: immanenza. Se tradizionalmente questa è stata interpretata come la risoluzione di ogni realtà in un unico principio – che questo poi sia Dio o la coscienza trascendentale poco importa –, quella testimoniata da Adinolfi è al contrario un’immanenza senza principio, priva di quella medesima istanza che, a ben vedere, è la stessa «che impedisce di pensare rigorosamente un piano assoluto d’immanenza», (p. 227). Una volta stabilito l’unico principio, infatti, s’incalza poi con le esclusioni, senza rendersi conto che sono proprio queste ultime a determinare il principio, perdendolo dunque come tale. L’immanenza di cui si rende conto nel volume è invece quella propria dell’accanto, del disporsi delle cose l’una in stato di in-differenza rispetto all’altra. Qualcosa di simile a quanto si esplicita in quel che di fatto è il testamento filosofico di Gilles Deleuze (Immanenza: una vita…), col rischio che però affibbiando all’immanenza il nome di “vita”, si perda nuovamente la sua assolutezza lasciandole al di fuori quel che, invece, vita non ha. Ad ogni modo, l’esercizio di Adinolfi è un passo a lato rispetto a chi pretenderebbe di circoscrivere la pianura dell’immanenza nello sguardo di una coscienza trascendentale o di qualsiasi altro elemento unitario, tentativo mal celato di tradurre l’essere-in-due nell’essere il due.
Irrompono le spire della riflessione, e logica-mente appaiono tutte le obiezioni formulabili ad una simile impostazione. L’essere delle cose l’una accanto all’altra, non si determina forse con la forza – diciamo pure: con la violenza – propria dell’esclusione di altre modalità relazionali? Il giacere delle cose in stato di indifferenza, non è forse altro dall’essere in regime di differenza? In quel regime, cioè, in cui ogni cosa è quel che è unicamente perché, insieme, nega quanto essa stessa non è? E allora, se l’indifferenza si distingue dalla differenza, non è forse già da sempre differente? Non è né più né meno – questo concetto e questo libro, che su di esso s’incardina – di una semplice contraddizione?
Ridotto a contraddizione, notiamo per inciso, è tanto il negatore del principium firmissimum nel libro IV della Metafisica aristotelica, quanto chi, entro un’atmosfera hegeliana, intenderebbe ritagliare uno spazio in cui la cosa in sé kantiana possa accampare i propri diritti. E potremmo aggiungere: autocontraddittoria è pure la figura del nulla nel IV capitolo de La struttura originaria di Emanuele Severino, discusso peraltro da Adinolfi proprio in questo stesso volume (pp. 85-88).
A voler assumere le difese dell’in sé di contro al pensiero, questo grande prevaricatore ha tutte le ragioni di toglierlo accertando la propria assolutezza. E allora? E allora forse si tratta di non assumere difesa alcuna, se questa veste i panni di chi argomenta prendendo lenti logiche, indossandole ed approcciando l’ente sotto un profilo logico e solo logico. Potremmo allora tornare su quella contraddittorietà, guardandola diversamente: che la cosa in sé sia una mera astrazione, un caput mortuum del pensare, è certo una conclusione legittima in chiave logica. Ma forse, lungi dall’essere questa il trampolino di lancio per consentire alla logica di conseguire la patente della propria assolutezza, diventa al contrario una spia, un segnale della sua stessa difficoltà a pensare la cosa, nella sua più semplice immediatezza: «Perché qui l’impossibilità dovrebbe, per dir così, colpire l’ente stesso e non invece il pensiero, la pensabilità logica come tale, in quanto appunto si lascia ogni volta scappare la quieta impassibilità dell’ente, la sua pace e la sua letizia?», (p. 247).
Non v’è allora possibilità legittima in sede logica di distinguere l’ente stesso da un’astrazione del pensiero, e neppure quella però di fare appello ad ingenue intuizioni, canali che balzerebbero di là dal gioco logico una volta che di questo ne vengano accertati i limiti costitutivi. Ma se manca il criterio per decidere, è anzitutto perché ad essere deposta è la medesima idea che qui ci si trovi nel luogo proprio di una decisione. Giacendo e distendendosi accanto alle cose entro un piano d’immanenza cieca – senza centro e circonferenza, gerarchie e subordinazioni –, il volume di Adinolfi disegna uno spazio di pura superficie, in-canto proprio della sospensione del rapporto.
Riprendendo un ulteriore lascito dalla veneranda (e terribile) tradizione, potremmo dire con Parmenide: tò gàr autò noeîn estín kaì eînai. E tuttavia l’“identico” del Poema parmenideo, l’“autò” si profilerebbe qui come la più semplice delle comunanze, quella propria di chi giace sullo stesso piano: «Lo stesso, ovvero la stessa località: qui, accanto. Il medesimo direbbe allora il più povero accanto […], in cui essere e pensiero si troverebbero in due senza che si costituisse un due», (p. 78).