Estetica e filosofia delle arti

Poetiche del testo filosofico. Hegel, Merleau-Ponty e il linguaggio letterario (Carocci 2024)

Recensioni

C’è una differenza fondamentale tra la maniera di pensare di un filosofo e quella di un romanziere. Si parla spesso della filosofia di Čechov, di Kafka, di Musil, ecc. Ma provi a tirar fuori da ciò che hanno scritto una filosofia coerente! […] la meditazione, dal momento in cui entra nel corpo del romanzo, cambia essenza: un pensiero dogmatico diventa ipotetico. Cosa, questa, che sfugge ai filosofi allorché si cimentano con il romanzo [1].

È da questa «differenza fondamentale» tra filosofo e romanziere messa in luce da Milan Kundera che prendiamo le mosse nella nostra recensione. Il volume Poetiche del testo filosofico. Hegel, Merleau-Ponty e il linguaggio letterario di E. Caramelli, del resto, può essere pensato proprio come un tentativo di mettere a frutto la fecondità di questa differenza secondo varie direttive. L’idea del libro è precisa: «mostrare come la filosofia trova nella letteratura un banco di prova grazie al quale scopre qualcosa di profondo su sé stessa» (p. 34). Messa in questione ogni chiusura dogmatica della filosofia in sé stessa, è infatti proprio il rapporto con la letteratura che rende pienamente omaggio all’ufficio autocriticodella pratica filosofica. Non potendo mai assumere nulla come dato e semplicemente presupposto, la filosofia trova nelle questioni della propria testualità e della scrittura un elemento decisamente non derubricabile. 

Compiuta questa breve ripresa, possiamo quindi esplicitare i due «problemi principali» che indirizzano l’interrogazione dell’autrice: 1) il rapporto tra filosofia e letteratura, in tutta la sua complessità; 2) la traduzione del concetto in scrittura. Si tratta ovviamente di due plessi strettamente intrecciati, che solamente nel loro insieme conducono la filosofia – in quanto esercizio autocritico – a porre attenzione a quello che Caramelli definisce felicemente come il suo «momento estetico», fase cruciale in cui concetti e nozioni teoriche s’incarnano nelle parole. È l’insieme di queste direttive a spingere il pensiero sino a interrogarsi sul «fatale intreccio grazie al quale pensa: quello tra il momento estetico (la letteralità del testo) e il momento speculativo» (p. 17). Questa costellazione di problemi costituisce il sottofondo dell’intero volume, modulato rispetto a due protagonisti principali: Hegel e Merleau-Ponty. 

Dopo un’introduzione dedicata a ripercorrere e problematizzare le posizioni del dibattito contemporaneo sul rapporto tra filosofia e letteratura, il volume passa a interrogare questo rapporto con Hegel. In particolare, nella presente sede ci limitiamo a riprendere il caso studio che concerne la “comparsa” di Antigone nella Fenomenologia dello spirito, lasciando ai lettori l’approfondimento degli spunti ulteriori. Cosa succede, quindi, laddove una figura letteraria prende parte al discorso filosofico? Conserva o meno Antigone una sua propria autonomia nel contesto del Bildungsroman dello spirito?

Muovendo da queste domande, l’autrice si sofferma su un passaggio in particolare: «poiché soffriamo, riconosciamo di avere sbagliato [weil wir leiden, anerkennen wir, daß wir gefehlt[2]. La scelta non è casuale, poiché di contro alla fermezza “scultorea” del pathos greco, queste parole dell’Antigone hegeliana sembrano ammettere il riconoscimento della propria colpa. Si tratta di un passaggio controverso, dagli interpreti valutato di volta in volta come una lettura forzata da parte di Hegel, un suo errore di traduzione o addirittura come un vero e proprio malinteso. L’ipotesi ventilata da Caramelli, invece, è che questo passaggio non rappresenti tanto una citazione diretta dalla tragedia sofoclea, bensì una vera e propria riscrittura hegeliana. Prendendo parte al testo filosofico, l’Antigone hegeliana depone l’«inflessibile rigidità del personaggio» e «secondo un andamento che la assimila alle figure fenomenologiche la cui certezza è profondamente modificata dall’esperienza, va incontro a una vera e propria trasformazione interiore» (p. 58). In questo senso, sembra che l’Antigone hegeliana si emancipi da quella sofoclea: da figura letteraria si fa figura del pensiero. 

A una lettura più attenta, tuttavia, gli equilibri tra filosofia e letteratura si complicano sino a rovesciarsi. Soffermandosi nuovamente sul passaggio interessato, l’autrice osserva come si tratti di un monologo interiore o discorso immediato. Con questo rilievo, l’idea suggerita da Caramelli è di ricercare la fonte del passaggio non tanto nel testo sofocleo, bensì in «quello che la sua Antigone pensa tra sé e sé» (p. 61). Al monologo interiore inoltre, come dimostrano le analisi di Gérard Genette riprese dall’autrice, è strutturalmente connessa una sorta di emancipazione della figura letteraria, al punto che «il narratore si cancella e il personaggio si sostituisce a lui»[3]. Da questa nuova angolatura, e ripensando ai rapporti tra la Fenomenologia e l’Antigone hegeliana, la voce della figura non sembra affatto essere assorbita dalla discorsività filosofica. Essa piuttosto la respinge, incarnando quell’«eccedenza della dimensione figurale letteraria sul registro discorsivo della filosofia» (p. 66) che rimanda pure alla differenza tra filosofia e letteratura da cui siamo partiti. Questo esempio mostra in che modo, lungi dall’intendere tale differenza come una mera separazione, essa costituisca piuttosto l’occasione di un’esperienza, di un incontro in cui al pensiero filosofico è concesso di sperimentare «il proprio limite esponendosi all’alterità del letterario» (p. 66).

Il secondo protagonista del volume è invece Maurice Merleau-Ponty. Anche in questo caso ci soffermeremo solamente sulla porzione testuale dedicata alla relazione tra Proust e la filosofia, lasciando ai futuri lettori l’approfondimento dei restanti paragrafi rivolti alla ricerca dello stile in filosofia (par. 2.1), alla verità dell’apparenza (par. 2.2) e al rapporto con Stendhal (par. 2.3).

Il punto di partenza è Le problème de la parole, un corso tenuto da Merleau-Ponty al Collège de France tra dicembre 1953 e aprile 1954. È la terza parte del corso che, oltre ad essere un commentario alla Recherche, solleva il problema del rapporto tra Marcel Proust e la filosofia. La questione viene introdotta mediante il riferimento a un brano tratto dal primo volume (Dalla parte di Swann): il narratore è alla ricerca di una grande idea filosofica a partire dalla quale possa germogliare la sua opera letteraria. Come nel caso dell’Antigone hegeliana, anche qui l’intreccio tra filosofia e letteratura condurrà tuttavia alla sperimentazione di un vero e proprio rovesciamento. 

Il rovesciamento è preparato dalle analisi di René Girard in Menzogna romantica e verità romanzesca, mediante cui Caramelli evidenzia il duplice carattere mediato e menzognero del desiderio che anima il narratore. Come l’individuo moderno mutua il proprio desiderio da un mediatore che ne indica l’oggetto, così la duchessa di Guermantes ha il pieno controllo sul desiderio del narratore, che si compiace «di pensarsi come il romantico eroe di romanzo alle prese con la conquista della dama grazie alle proprie arti» (p. 129). La vocazione letteraria, e di conseguenza lo sforzo per conquistare idee filosofiche da mettere su carta, sono solo mezzi subordinati alla meta desiderata dal narratore. Inoltre, dicevamo, sempre questo desiderio ha carattere menzognero: esso, da totalmente eterodiretto e mediato qual è, si ricopre con quella maschera di autonomia cui l’uomo moderno è morbosamente attaccato. È rispetto a questo sfondo che Girard distingue l’operazione del romanzo moderno dalla contraffazione romantica. Lungi dal confermare l’illusoria e narcisistica autonomia del desiderio, il romanzo provvede infatti a «demistificarne l’illusione», culminando nel «momento in cui l’eroe, diventato vero uomo, vince la sua malattia proprio quando rinuncia all’orgoglio e perde l’autonomia» (p. 130). 

È precisamente quest’inversione che si sperimenta nella Recherche proustiana in rapporto all’immaginario romantico del narratore; sarà ancora quest’inversione, inoltre, a mostrare la via per la scrittura. Interamente prigioniero del proprio sé, il narratore indirizza tutti i suoi sforzi artistici alla conquista della duchessa, aprendo un circolo vizioso in cui vengono ad alternarsi autocelebrazione e disperazione per la propria mancanza di talento. Questo vettore, che vorrebbe imboccare la strada della scrittura a partire dalla ricerca di idee filosofiche, non porta a nulla. L’inversione si sperimenta in un episodio del romanzo che Merleau-Ponty riprende proprio in Le problème de la parole. È il celebre passaggio dedicato ai campanili di Martinville: vedendo stagliarsi sul cielo i campanili nel bel mezzo del suo viaggio in carrozza, il narratore chiede al dottor Percepied carta e matita per scrivere “un breve pezzo”. Come si può facilmente intuire, il vettore è qui invertito: ispirazione poetica e scrittura non provengono dalla ricerca volontaria del narratore, ma anzitutto dall’esperienza e dagli incontri che questa consente in tutta la sua imprevedibilità. Con le parole dell’autrice, abbiamo qui «l’idea di un rovesciamento che è promosso dall’esperienza, il quale soltanto apre lo spazio per la letteratura» (p. 133).

Sempre rispetto a questo capovolgimento, Caramelli chiama in causa gli spunti di Gilles Deleuze in Marcel Proust e i segni. In questo libro, Deleuze contrappone infatti all’idea di una ricerca metodica e volontaria la duplice idea di costrizione e caso. La verità non può essere raggiunta dall’autonomia sempre illusoria di un pensiero che, per conquistarla, si sforzi di procedere correttamente e senza errori. La verità si tradisce invece negli incontri, sempre casuali, che tuttavia mettono in moto il pensiero costringendolo a dispiegarsi creativamente. In maniera del tutto analoga, non è ragionando su chissà quali idee speculative che il narratore perverrà finalmente all’ispirazione letteraria. È piuttosto con l’imprevedibilità dell’esperienza che la filosofia riscopre un legame prezioso; non tanto perché la prima offra al pensiero la possibilità di trovare le conferme che cerca, ma in quanto «è proprio defraudandola delle sue certezze che l’esperienza costituisce il banco di prova della filosofia al di là di ogni buona intenzione, che come tutti sanno lastrica i sentieri che vanno in direzione sbagliata» (p. 137). 

Per concludere, possiamo tornare al rapporto tra filosofia e letteratura da cui abbiamo preso le mosse. Analogamente a quanto avviene con l’esperienza, la letteratura non è da pensarsi prima di tutto come il terreno in cui la filosofia trovi le conferme che cerca. Al contrario, è solo aprendosi alla specificità e all’irriducibilità della letteratura che la filosofia, quasi per rimbalzo, può tornare su di sé e accrescere la propria consapevolezza critica: «è proprio l’attento ascolto della parola letteraria nella sua specificità a poter far riflettere criticamente la filosofia su se stessa» (pp. 145-6). Riprendendo il monito di Kundera in esergo, deponiamo l’attitudine a cercare la filosofia proustiana tentando di ricostruire una teoria coerente a partire dalla Recherche. È solo nella loro irriducibilità al pensiero concettuale che Proust e la letteratura in generale consentono alla filosofia di accrescere la propria consapevolezza di sé. Questa poi può essere declinata nei termini di coscienza del momento estetico-testuale, oltre che dell’inseparabilità di idea e pratica di scrittura. Questioni decisive, da calibrare rispetto a quello che è forse il merito primario del volume e che consiste nel sollevare e affrontare il problema del «legame musaico» tra letteratura e filosofia. Riattualizzando una questione dalla storia certo non breve, è questo legame a ricordarci come «il vigore speculativo e (auto)critico della filosofia» (p. 147) dipenda proprio dalla capacità che essa avrà o meno di riconoscerlo e sperimentarlo. 


[1] M. Kundera, L’arte del romanzo, tr. it. di E. Marchi, Adelphi, Milano 1988, pp. 15-16.

[2] G. W. F.  Hegel, La fenomenologia dello spirito, a cura di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008, p. 315.

[3] G. Genette, Discorso del racconto, in Id., Figure III (1972), tr. it. di L. Zecchi, Einaudi, Torino 2006, p. 222.