Estetica e filosofia delle arti
P. D’Angelo, “La tirannia delle emozioni” (Il Mulino 2020)
Perché apprezziamo un film che suscita in noi terrore o lacrime? Perché ricerchiamo volontariamente nei prodotti dell’arte emozioni tanto intense da essere insopportabili, quando sopraggiungono nella vita quotidiana? E perché ci commuoviamo di fronte alla sorte sventurata del personaggio di un romanzo, anche se sappiamo che si tratta di una finzione letteraria? Un attore, per trasmettere un’emozione, deve necessariamente provarla in prima persona?
Sono alcuni degli interrogativi attorno a cui ruota il testo di Paolo D’Angelo La tirannia delle emozioni (il Mulino, Bologna 2020), un lavoro filosofico per eccellenza (in)attuale. “Attuale”, perché si occupa delle emozioni nell’arte: non soltanto un tema all’ordine del giorno nel dibattito teorico tra estetica, psicologia e neuroscienze, ma anche uno dei principali motori dell’industria culturale contemporanea. È noto, al botteghino sbanca il film che più riesce a far ridere, piangere, commuovere; ma la stessa logica regola anche il funzionamento dei Social Media, dove l’algoritmo si nutre dei contenuti che riescono a toccare meglio le corde emozionali degli utenti, generando in risposta un profluvio di emoticon. Il libro di Paolo D’Angelo è, però, anche “inattuale”, cosa che l’autore stesso esprime nel suo epilogo: chi prova a mettere in questione, giudicandola unilaterale ed eccessiva, la conquista di campo da parte delle emozioni nei prodotti dell’arte, «può spesso essere colto dal dubbio di stare combattendo una battaglia di retroguardia, di essere rimasto indietro rispetto alle tendenze contemporanee della comunicazione artistica, di arroccarsi in una dimensione ideologica dell’esteticità» (p. 229). Si tratta dunque di una posizione inattuale su di un tema attuale, di una critica – condotta con gli strumenti della filosofia – al mainstream dell’immersività e della virtualità che domina i luoghi teorici e fisici dell’arte.
L’installazione di Alejandro Gonzàlez Iñàrritu ospitata nel 2017-2018 alla Fondazione Prada di Milano, dal titolo Carne y arena, diventa nel libro il simbolo della tendenza non solo ad appellarsi alle emozioni, ma anche ad equiparare le emozioni provocate dall’arte a quelle, per così dire, reali. I visitatori – o meglio, i partecipanti – vengono dotati di visore e altri ausili tecnologici, che immediatamente li proiettano nel deserto tra Messico e Stati Uniti, e li rendono parte di un gruppo di migranti intenti a varcare il confine. Ma siamo così sicuri – si chiede l’autore – che siano sufficienti i rumori dei fucili, degli elicotteri e delle urla, il freddo della sabbia e il sole del deserto a farci provare in prima persona «what is like to be a refugee»? Non si è di fronte a una sopravvalutazione delle emozioni primarie – come paura, dolore, tristezza – che si innescano quasi automaticamente e universalmente, rispetto alle emozioni più complesse, che necessitano di una mediazione cognitiva – l’umiliazione, per citarne una?
Si apre così un percorso, sviluppato in tre capitoli, nel quale viene messa in questione da Paolo D’Angelo l’equazione “arte = emozione”. Tale messa in questione avviene da diverse prospettive, ne proviamo qui a riassumere tre:
1) L’arte emoziona, niente di più scontato. Ma di quale tipo di emozione si tratta?
La contemporaneità tende a lasciare spazio alle emozioni di base a scapito di quelle complesse (secondo una distinzione di P. E. Griffiths). Le installazioni immersive, come quella di Iñàrritu, mirano ad attivare immediatamente le emozioni suscitate dal trovarsi “qui ed ora” in una realtà virtuale: «non basta rappresentare, fare immaginare, si deve inserire il fruitore all’interno dell’opera, bombardarlo di stimoli, possibilmente multimediali. L’emulazione si sostituisce alla catarsi: l’emozione non deve compiere un tragitto, essere assimilata e magari trasformata, ma deve essere sentita, vissuta in prima persona» (p. 11). L’esperienza estetica è però, in molti e significativi casi, qualcosa di più complesso dell’esperienza di identificazione “da videogame”: per comprendere il rimorso e l’angoscia di Raskòl’nikov non devo necessariamente sentire l’afa estiva di San Pietroburgo o vedere il volto dell’usuraia, ma piuttosto comprendere la storia e riflettere sulla psicologia del personaggio, attività che implicano la mediazione di funzioni cognitive superiori.
2) L’arte emoziona, ne facciamo esperienza tutti. Ma le emozioni provocate dall’arte sono identiche a quelle della vita ordinaria?
Lo scopo di un’installazione immersiva è far provare al partecipante emozioni vere, reali, anche se la realtà che le causa è virtuale. Non è un caso che il rinnovato interesse per le emozioni anche nel dibattito teorico – segnato idealmente dall’opera del 1989 di D. Freedberg, The Power of Images – si sia innestato nel solco delle ricerche neuroscientifiche legate ai neuroni specchio e in particolare al loro utilizzo nelle teorie estetiche sull’empatia (D. Freedberg, V. Gallese). Tali teorie reagiscono legittimamente a un eccesso di intellettualismo e formalismo nell’arte, che ha dominato buona parte del ’900, ma rischiano di cadere nell’estremo opposto e non riescono a sbrogliarsi dal problema della distinzione tra opere d’arte da un lato, e oggetti, persone, situazioni reali dall’altro. Se la reazione emotiva, incarnata e precognitiva, che si ha di fronte alla scena cruenta di un film è esattamente lo specchio di quella che si avrebbe di fronte alla stessa scena nella realtà, perché – si chiede l’autore – darsi tanta pena a creare opere d’arte? Perché non limitarsi al cosiddetto rubbernecking in autostrada? Un’illustre tradizione di pensatori, da Aristotele a Lessing a Diderot e Croce ha invece «quasi sempre pensato il rapporto tra le emozioni suscitate dalle opere d’arte e le emozioni vissute nella quotidianità sotto la specie della differenza e non sotto quella dell’identità o della continuità» (p. 223), attribuendo cruciale importanza a concetti quali il disinteresse estetico.
3) L’arte emoziona, lo ha sempre fatto. Ma emozionare è lo scopo unico ed esclusivo dell’arte?
Secondo molteplici prospettive filosofiche, l’emozione suscitata o contenuta in un’opera è il nucleo costitutivo del suo valore artistico. Tuttavia, sarebbe riduttivo ignorare il nesso tra esperienza estetica ed esperienza conoscitiva, evidente dall’antico concetto di pàthei màthos sino alle pagine della terza critica kantiana. Non solo «le immagini informano almeno quanto emozionano» (p. 60), ma sono le stesse emozioni a poter funzionare cognitivamente, come sostiene il filosofo analitico N. Goodman: un’opera d’arte può emozionare, ma può anche farci meglio comprendere un’emozione, esibendola o raccontandola. È possibile dunque rilevare una disparità tra la semplicità dell’emozione direttamente sentita (come la paura provocata da un film horror di bassa qualità) e la complessità del contenuto emotivo veicolato dall’arte (Jack Nicholson in Shining non ci fa solo paura, ma dipinge il «progressivo sprofondare nella follia di uno scrittore in crisi creativa ed esistenziale», p. 203).
Lungi dal voler mettere in discussione il ruolo che le emozioni giocano nelle produzioni artistiche, Paolo D’Angelo propone un’ampia riflessione di ontologia dell’arte che interroga la natura dell’opera d’arte rispetto al suo altro, il suo valore conoscitivo oltre che emozionale, e lo statuto delle emozioni estetiche rispetto a quelle ordinarie. Lo fa appellandosi alla tradizione filosofica continentale (suggerendo, in conclusione, un ritorno ad Aristotele) ma con particolare attenzione anche al dibattito dell’estetica analitica angloamericana e alle ricerche neuroscientifiche più recenti, chiamando in causa il cinema, i romanzi, il teatro, la musica e la pittura – molteplici forme di espressione artistica che, nella contemporaneità, rischiano una tirannia delle emozioni, le cui ragioni teoriche e scopi pratici è bene quantomeno interrogare.