Filosofia della cultura
L’universo della cultura come raddoppiamento
«Che un tale passaggio dall’Uno al Due sia alcunché di sbagliato, una sorta di caduta o un errore da riparare, per tornare alla perfezione della prima natura, o non sia invece qualcosa di positivo, non una degradazione, ma, per dirla con Gadamer o Hegel, un incremento, è quanto traccia la differenza tra le visioni antiumanistiche e umanistiche, tra chi propugna il ritorno mitico alla natura e chi è fedele alla storia, all’esistenza, che dice “Sì” all’uomo» (p. 11).
Comunque lo s’interpreti, questo passaggio capitale dall’Uno al Due inaugura l’universo della cultura. Gaetano Chiurazzi, nel suo Seconda natura (Rosenberg e Sellier, Torino 2021) ne indica anche un “luogo preciso”: la grotta di Lascaux è un limite che marca in modo indelebile la differenza tra un prima e un dopo. In questa specie di Cappella Sistina della preistoria troviamo dipinti risalenti a oltre 15.000 anni fa che l’autore non esita a definire il Big Bang dell’arte (p. 15). C’è un elemento che rimane centrale: rappresentare la natura è il modo più primitivo di lasciarla. La rappresentazione ci pone di fronte a un abbandono, e più precisamente alla presenza di un rappresentante assente. “Identificarle come pitture vuol dire riconoscere che esse non sono natura” (p. 17). Che cos’è dunque Lascaux? In sintesi potremmo dire: il fotogramma dei primi istanti di vita dell’universo culturale.
Da questo punto prende avvio la genealogia di Chiurazzi, in particolare quella legata allo statuto della mano, che da Anassagora, passando per il contributo fondamentale di Gregorio di Nissa, giunge al “cervello esterno” del Kant dell’Antropologia pragmatica, a arriva sino agli studi di Leroi-Gourhan – la mano libera la parola – e più di recente di McGinn, secondo cui addirittura il corpo stesso diventa infrastruttura della mano. Qui il termine “comprensione” andrebbe davvero scritto secondo il suo calco latino “comprehensione”.
Altro luogo nevralgico nel nostro percorso è la gola di Olduvai in Tanzania, dove troviamo i primi utensili molto primitivi di un Australopitecide, segno evidente del passaggio – per collocare il problema su piano squisitamente disciplinare – dalla zoologia alla sociologia: lo strumento apre immediatamente il campo trascendentale della trasmissione, del coinvolgimento di ogni membro della comunità, della comprensione dell’uso e del significato dei singoli arnesi di lavoro: in breve qui si apre il campo del “fare di tutti e di ciascuno”, come direbbe Giorgio Guglielmo Federico.
Che cosa sono questi segni? Che cos’è una scrittura? Chiurazzi conia a questo punto il concetto di “comprensione radicale”, ricalcando, ma in parte anche superando, le nozioni analoghe di “traduzione radicale” (Quine) e di “interpretazione radicale” (Davidson), volendo invece accennare al fatto che prima di ogni decifrazione occorre una sorta di precomprensione trascendentale: la scrittura è specchio del riconoscersi reciproco tra spiriti, formula che assume una chiara prospettiva dialettica – il riconoscimento della presenza(-assenza) di una intelligenza quanto meno simile alla nostra.
L’analisi diviene ancora più sottile quando si scopre che il nucleo generativo di questa operazione di differenziazione tra oggetto naturale e opera d’arte, tra una pietra e un’ascia, s’identifica in qualcosa che non c’è. Tutto ruota attorno a un “non”: qualcosa che si sottrae e perciò produce una differenza. Per citare Deacon, si potrebbe parlare di “assenziale”. È un carattere di assenza, vale a dire di incompletezza della coscienza. Anzi è costitutivo per la coscienza collocarsi nella non-presenza, nell’assenza.
Dunque uno strumento è incompleto su due fronti: rimanda a un chi assente, ma anche a una possibilità non attualizzata – forse, però, si potrebbe anche pensare che questo duplice rimando a una doppia assenza è in realtà un unico rimando, dal momento che l’intelligenza assente è anche il luogo in cui di volta in volta si attualizzano delle (nuove) possibilità.
Che cos’è dunque questa duplicazione? L’autore prende spunto da un passo dell’Estetica di Hegel: le cose naturali sono una volta soltanto, mentre l’uomo come coscienza si raddoppia. Aggiunge Chiurazzi che questo sarebbe il raddoppiamento “introdotto dalla coscienza”: ma in realtà siamo davvero autorizzati a pensare una coscienza come qualcosa di antecedente che introduca poi la dinamica del raddoppiamento? O non è forse la coscienza stessa un effetto di questo dividersi in se stesso?
A partire da questo campo trascendentale, dal raddoppiamento in cui si apre l’universo della cultura – “manifestarsi e scindersi sono la medesima cosa”, scriveva appunto Hegel – prendono vita tutta una serie di questioni centrali che costituiscono per così dire lo scheletro dell’articolazione di questo volume. Innanzitutto, se cultura è passaggio dall’Uno al Due, entro questo dualismo si costituisce anche il problema della natura come identità, ossia come regressione verso l’Uno, e però anche la questione opposta, vale a dire quella della duplicazione di tale “identità naturale” attraverso la potenza della “poiesis”, da cui il tema dell’immagine, della produzione come rottura della simmetria, e soprattutto dell’apparire del senso.