Estetica e filosofia delle arti
Il pensiero paesaggista
È stato recentemente tradotto un testo, La pensée paysagère (Éditions Éoliennes 2008, 2013), ora Pensare il paesaggio (Mimesis 2022), che si pone come breve vademecum del metodo e come emblematica summa di tutta la riflessione degli ultimi anni di un autore centrale all’interno del dibattito contemporaneo dedicato allo studio degli ambienti umani: Augustin Berque. In questo saggio dal sapore narrativo, scritto con uno stile a metà strada tra il resoconto di viaggio e la trattazione filosofica, emerge una dicotomia, un’antinomia essenziale che immortala limpidamente quale sia il bivio, la questione di fondo che ultimamente investe prepotentemente tutte le discipline che hanno al centro il tema dell’abitare. Al pensiero del paesaggio si contrappone il pensiero paesaggista. Questa distinzione non è solo astrattamente teorica, bensì eminentemente e concretamente etica: riguarda le scelte pratiche che condizionano il nostro mondo-ambiente. Non interessa qui rilevare come questa opposizione disegni la silhouette in cui si riassumono i tratti più caratteristici della prospettiva di fondo di Berque, quanto piuttosto evidenziare come essa sia il cardine su cui poggia la porta che dà accesso all’interpretazione di un libro, che ne sembra quasi la conseguente messa in opera e concreta realizzazione. Per apprezzare e comprendere l’attualità e la complessità dello scenario in cui si iscrive e con cui dialoga il lavoro di Annalisa Metta, Il paesaggio è un mostro. Città selvatiche e nature ibride (DeriveApprodi 2022) bisogna allora innanzitutto considerare questo: non è una raccolta di idee, note, racconti che pensano il paesaggio. In esso non è presente alcun pensiero del paesaggio. Anzi, fin da subito (p. 10) si avverte il lettore. Ostinarsi a voler definire il paesaggio significa tradire e ridurre l’esperienza di qualcosa che è metamorfico, ibrido, luogo di multiformi contaminazioni spontanee; significa perpetuare quella differenza tra paesaggio visto-conosciuto e paesaggio vissuto-agito – tipica di tutta la storia del pensiero del paesaggio, si pensi all’ormai classico libro di E. Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato (Marsilio 2001) – che cristallizza e addomestica quella polarità tra civile e selvaggio, agreste e urbano, abbandonato e coltivato, la quale rappresenta la linfa vitale, il terreno fertile su cui prolifera il paesaggio. Pensare paesaggisticamente, invece, (p. 11) «significa riconoscere che il paesaggio sia frutto di una continua alterazione, che sia disarmonico proprio perché perennemente in bilico, conteso tra gli effetti di una ininterrotta manipolazione che si svolge su più piani». Il libro non è, quindi, l’ennesima disamina sul paesaggio, quanto piuttosto l’esercizio concreto di un pensare paesaggisticamente, che ne assecondi il movimento.
Ma, per definizione, il mutamento, il cambiamento, non può che esprimersi in atto, mostrando il venire ad ideazione del progetto, attraverso quel moto composito di emersione di sedimenti riposti e ricongiungimento di trame disperse che sta alla base, tanto dell’erratico e improvviso venire alla luce del progetto architettonico del paesaggio, quanto dello stile espositivo del libro, che non poteva che essere biografico, personale, tutto volto a tradurre l’esperienza anche teorica, figlia dello sguardo, nel racconto incarnato. E non è, quindi, un caso che anche lo stile narrativo del libro, composto di dodici saggi-racconti tematici, per volere stesso dell’autrice conclusi in se stessi e fruibili autonomamente senza vincolo di precedenza, sia affine a quello de La pensée paysagère di Berque. Perché per mettere su carta l’esperienza vivida dello spazio sentito, concretamente vissuto nella sua singolarità e unicità, non si può che ricorrere alla ‘prima persona’; connettere al movimento che cerca l’esemplare, l’emblematico, il tipico, l’episodio reale, l’esperienza individuale, il racconto biografico. Solo così è possibile dare ragione di ciò che significa pensiero paesaggista: vivere quella relazione ecologica, sempre reciproca, che unisce senza soluzione di continuità il vivente e il suo ambiente; il fare progettante antropico e il mostruoso, imprevedibile e costante emanciparsi della natura. Il pensiero paesaggista, che non deduce la relazione, ma la opera nello spazio vivente, non si illude: (p.15) «Il selvatico, di per sé, non esiste». È un punto di vista. Ciò non lo rende per nulla meno efficace, meno mostruoso, meno perturbante, tutto il contrario. Permette, anzi, il venir meno di due grandi malintesi.
Il primo: che la natura sia fonte di redenzione. Morale, politica, teologica non importa: questo presupposto, che viene da lontano (Dai romantici, da Rousseau ecc.), considera la natura come il grembo immacolato a cui tornare. Deturpata dall’azione umana, un tempo fu indipendente e perfettamente in sé. Ma a queste condizioni non è possibile alcun progetto di paesaggio: per chi conserva il mito del buon selvaggio, ogni azione rivolta alla natura è un’intrinseca profanazione. È una violazione, che tutt’al più va mascherata, camuffata, artificialmente minimizzata: meglio che la natura si determini da sé. Ecco, però, il paradosso, che Annalisa Metta ci mostra, secondo il pensiero paesaggista, quindi non semplicemente a parole, ma in actu: anche il più spontaneo lasciar fare è un sapiente fare, manipolare; anche il selvaggio è in qualche modo artificiale. E ciò si rende, appunto, manifesto attraverso l’opera di due, anche se il libro abbonda di molti altri, paesaggi esemplari: l’High line a New York (2008), e la Conversione dell’aeropista di Bonames a Francoforte (2004). Se nel primo caso, l’ultimo tratto della camminata lasciato realmente incolto rivela, come per lo strappo nel cielo di carta di Pirandello, l’illusione di una crescita spontanea; nel secondo, è la spontaneità stessa ad esser artificialmente prodotta e coadiuvata, con precisi interventi umani, attraverso il progetto delle rovine che, come ha mostrato Georg Simmel in un suo saggio esemplare (Le rovine, in Saggi sul paesaggio, Armando Editore 2006), sono la cifra espressiva, estetica, di quel piacere che solo la natura vittoriosa, finalmente emancipata, può trasmettere. Ecco allora che il progetto del paesaggio vive nella tensione reale di due poli: naturale e artificiale. Senza decidersi, né per l’uno, sotto le mitiche promesse di riconciliazione, né per l’altro, nell’incontrollata dominazione, rinunciando alla sua faticosa missione: trovare sempre nuovi modi per cooperare con il selvaggio, per operare con e non su il paesaggio. (Come suggerisce J.M Besse, paesaggio ambiente,DeriveApprodi 2020). Nella convinzione che (p. 20) «il selvatico sia un’idea che si rinvigorisce con il corroborarsi del suo opposto: non si dà selvatico senza civiltà e viceversa».
Chiarendo i termini del primo malinteso è possibile approcciare il secondo: riconoscere la reciproca dipendenza di selvatico e artificiale consente di mettere fuori gioco la rassicurante retorica del ‘green’; quella patina ingenua, inconsapevolmente neutralizzante e addomesticante, alla cui decostruzione è dedicato un capitolo formidabile, che mostra come (p. 88) «ciò che vediamo nei florilegi dei render della città clorofillica non sia affatto la natura: è il “verde”, per l’appunto, che nulla a che fare con i suoi incanti portenti, pericoli e accidenti». Parole che fanno eco a quella denuncia, già avanzata da un’autorità in materia come Rosario Assunto, sull’impossibilità di considerare gli “spazi verdi” al pari del paesaggio. Se si perde il senso del progetto, come tentativo di equilibrio, come difficile armonizzazione di momenti in conflitto, in tensione, anche i termini che lo compongono perdono di mordente. Nel paradosso per cui, ad un progressivo vanificarsi dell’elemento mostruoso, corrisponde di contro l’incapacità di valutare l’intervento antropico: si sopravvaluta l’azione addomesticatrice – ecco allora con più violenza ritornare il selvaggio – e si sottovaluta la carica distruttrice – ecco allora verificarsi i peggiori episodi di greenwashing, sotto la mansueta maschera della sostenibilità, i provvedimenti più impattanti. L’esito mediano di questa ignavia è il “green” comunemente inteso: (p. 89) «il più innocuo dei fondali», un colore riposante, che trasmette benessere e armonia, «è il colore del futuro pacificato e confortante. Il verde in fondo è il nuovo beige».
Il merito del libro di Annalisa Metta è allora quello di saper mostrare, attraverso l’esperienza vivida dei luoghi, dei paesaggi, dei giardini che percorre, la multiforme espressione di un volto che, come le Teste composte dell’Arcimboldo, nasce per una sottile armonia di individualità diverse, unite eppure indipendenti. E come quei personaggi ritratti, a metà tra il mostruoso e il familiare, lancia uno sguardo ambiguo: qui c’è posto anche per i malintesi, perché il paesaggio, come città selvatica e selva civile, è una chimera, (p. 39) «un mostro, talvolta maligno talvolta benefico, che mescola e confonde elementi e corpi estranei. È il luogo dove si incontrano le moratorie sul concetto di natura, l’anti-antropocentrismo e il post-umanesimo. Non si nutre di alcuna pretesa prometeica, così come, viceversa, non richiede alcuna rinuncia al progetto». Superato il moderno pensiero del paesaggio, il pensiero paesaggista pensa attraverso i luoghi, rendendosi, come il paesaggio, sismografo (p. 173 e sgg.) delle esperienze mutevoli, delle ibridazioni, delle trame temporali sovrapposte.